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4 Aprile 2022
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Modernismo e tradizione nei progetti di Balkrishna Doshi


Il RIBA – Royal Institute of British Architects – ha annunciato che la Royal Gold Medal per l’anno 2022 sarà assegnata all’architetto indiano novantacinquenne Balkrishna Doshi. Professionista con alle spalle una lunghissima carriera e oltre 100 progetti realizzati, Balkrishna Doshi è stato nominato per il massimo riconoscimento inglese nel campo dell’architettura per aver saputo influenzare e plasmare gli indirizzi della progettazione e costruzione, nel suo paese e nelle regioni circostanti, attraverso una fruttuosa pratica professionale e un generoso impegno didattico. I suoi edifici combinano i principi del moderno con aspetti vernacolari, grazie a una profonda conoscenza delle tradizioni, del clima, della cultura e dell’artigianato locali. I suoi progetti spaziano dalle strutture per sedi governative, a quelle culturali, dai complessi abitativi agli spazi per l’istruzione. Per l’aspetto visionario dei suoi progetti di pianificazione urbana e di edilizia sociale, nonché per il suo contributo nel campo della docenza universitaria in India e come visiting professor nelle università di tutto il mondo, la sua opera ha raggiunto una certa notorietà a scala internazionale, fino al grande riconoscimento, nel 2018, con l’assegnazione del Premio Pritzker. Il presidente del RIBA Simon Allford ha affermato che “il lavoro di Balkrishna Doshi è stato di ispirazione per generazioni di architetti; influenzata dal tempo trascorso nell’ufficio di Le Corbusier, la sua produzione è tuttavia quella di un pensatore originale e indipendente. Nel ventesimo secolo, epoca in cui la tecnologia ha indotto molti architetti a costruire senza la dovuta attenzione al clima e alle tradizioni locali, Balkrishna Doshi è rimasto strettamente legato al suo background geografico e culturale: al clima, alle tecnologie nuove e antiche e all’artigianato della sua terra. La difesa di un linguaggio architettonico improntato a un’economia dei mezzi è di esempio per tutti gli architetti che lavorano nel difficile contesto odierno. I suoi edifici celebrano le tecnologie e i mestieri locali, l’habitat naturale, per creare ambienti leggibili; sono sfondi che accolgono il teatro della vita quotidiana ma anche meravigliosi saggi di una attenta interazione tra temi formali e tecnologici. Architettura, dunque, come sfondo e come primo piano”. Nato nel 1927 a Pune da una famiglia di produttori di mobili, Balkrishna Doshi ha studiato al Sir J.J. College of Architecture di Bombay. Ha iniziato a esercitare la professione in Europa, lavorando a stretto contatto con Le Corbusier come Senior Designer a Parigi (1951-1954), per tornare poco più che ventenne in India e proseguire la collaborazione con il maestro per altri quattro anni, con la supervisione dei suoi progetti nella città di Ahmedabad.
Ha lavorato poi per oltre un decennio con Louis Kahn, nella realizzazione, tra l’altro, dell’Indian Institute of Management, sempre ad Ahmedabad. Nel 1956 ha fondato con altri due soci il proprio studio, Vastu Shilpa, oggi attività multidisciplinare guidata da cinque partner che impiega sessanta dipendenti. Lo studio porta avanti la filosofia del fondatore, invitando al dialogo e alla condivisione del sapere. All’interno del Sangath Studio (sangath significa procedere insieme), sede della duplice attività di Doshi, articolata in Vastu-Shilpa Consultants (lo studio professionale) e Vastu- Shilpa Foundation (fondazione senza scopo di lucro, deputata alla ricerca applicata e alla produzione culturale), i passanti sono invitati a entrare per conoscere quel che avviene all’interno. Nel profilo pubblicato sul sito web di Vastu-Shilpa si legge: “il dialogo interattivo così come la partecipazione a tutti gli aspetti della forma costruita sono le nostre reali preoccupazioni. Anche se il nostro lavoro riguarda principalmente l’architettura, la progettazione urbana e la pianificazione, partecipiamo attivamente al mondo accademico, alla ricerca e agli studi sulle questioni ambientali. La partecipazione proattiva è il nostro modo di risolvere i problemi; di conseguenza la nostra sede è spesso visitata da cittadini, funzionari e organizzazioni nazionali e internazionali. Per facilitare il lavoro, il nostro studio è ampio e illuminato con lucernari esposti a nord; le pareti cieche interne consentono esposizioni e proiezioni; il carattere flessibile dello spazio fa si che si possa trasformare in occasione di seminari o workshop. L’anfiteatro e le terrazze sono spesso utilizzate per funzioni sociali”. Tra i principali progetti di Balkrishna Doshi ricordiamo: il Shreyas Comprehensive School Campus (1958-1963), ad Ahmedabad; la Atira Guest House (1958), intervento di residenze a basso costo ad Ahmedabad; l’Institute of Indology (1962), sempre nella stessa città, concepito per la conservazione di documenti rari; la Ahmedabad School of Architecture (1966, con ampliamenti realizzati fino al 2012), il cui progetto si focalizzava sul creare una spazialità consona a processi di insegnamento collaborativo; il Tagore Hall & Memorial Theatre (1967), un auditorium brutalista da 700 posti; la Premabhai Hall (1976), teatro e auditorium; l’Indian Institute of Management (1977-1992), scuola di economia a Bangalore; Sangath (1981), sede dello studio professionale Vastu Shilpa e ancora il Kanoria Centre for Arts (1984); l’Aranya Low Cost Housing (1989) a Indore, altro intervento di residenze a basso costo che valse a Doshi il Premio Aga Khan nel 1995. Alla notizia che riceverà la Royal Gold Medal l’architetto ha dichiarato: “la notizia di questo premio mi ha riportato alla mente il periodo in cui lavoravo con Le Corbusier nel 1953, quando aveva appenaavuto la notizia di aver ricevuto la Royal Gold Medal. Ricordo vividamente la sua eccitazione nel ricevere questo onore. Mi ha detto: ‘Mi chiedo quanto sarà grande e pesante questa medaglia’. Oggi, sei decenni dopo, mi sento davvero sopraffatto dall’essere stato insignito dello stesso premio del mio guru, Le Corbusier, in onore dei miei sei decenni di lavoro”. Balkrishna Doshi, ora ultranovantenne, è testimonianza vivente del potenziale di un’idea di architettura che si realizza attraverso la pratica e la trasmissione della conoscenza da una generazione all’altra. Un’architettura difficile da etichettare con uno stile, mutevole, in continua evoluzione, il cui scopo è delineare – per quanto le può competere – un contesto di vita migliore.
Questo articolo è stato pubblicato in l’industria delle costruzioni 482 – rassegna italiana. Intervenire sull’esistente – novembre/dicembre 2020
redazione IDC

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Claudio Marcello e le sue dighe. “Italian Style” alla scala del paesaggio


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4 Aprile 2022
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Claudio Marcello e le sue dighe. “Italian Style” alla scala del paesaggio


Negli anni della Ricostruzione e del miracolo economico si realizzano in Italia moltissime dighe di sbarramento per la produzione di energia elettrica. Come spesso capita nella storia dell’ingegneria italiana, alcune assumono un carattere unico e identitario, riconosciuto nel panorama internazionale: sono quelle disegnate da Claudio Marcello. Marcello ha dato addirittura il suo nome a un tipo di diga. Succede raramente che una tipologia strutturale si chiami con il nome dell’ingegnere che l’ha inventata. È noto il ponte Maillart, la seggiola Gerber, la trave Vierendeel: e poi c’è la diga Marcello, a gravità alleggerita. Marcello è praticamente sconosciuto tra i non specialisti, ma il suo lavoro è stato un riferimento mondiale negli anni ‘50 e ‘60 e silenziosamente ha contribuito al successo della Scuola italiana di Ingegneria: merita quindi di essere “riscoperto”. Claudio Marcello nasce a Forlì il 24 febbraio 1901. Nel 1924 si laurea in Ingegneria Civile Idraulica a Pisa e si trasferisce a Milano, dove comincia a lavorare nella società di progettazione di Angelo Omodeo, un pioniere della tecnica idroelettrica. In quegli anni è sempre più chiaro che senza energia non ci può essere sviluppo ma l’Italia è priva di carbone e di petrolio. Per questo il “carbone bianco”, l’acqua, è in quel momento l’unica valida risorsa alternativa. Bisogna sfruttare i tanti fiumi della penisola: Omodeo è tra i primi teorizzatori del “piano di bacino” che prevede lo sfruttamento di più bacini idrografici, soprattutto quelli montani, in modo coordinato. La gavetta di Marcello alle dipendenze di Omodeo inizia all’estero. Prima in Unione Sovietica, dove lo studio offre consulenze per valorizzare le grandi risorse idriche russe. Poi, quando l’amicizia italiana con i sovietici finisce, Marcello lavora a progetti in Etiopia. Nel 1937, la svolta: Omodeo si ritira dall’attività per motivi di salute, chiude lo studio e Marcello è assunto come direttore dell’Ufficio Costruzione Impianti Idroelettrici della Edison. La Edison, fondata nel 1882, con le sue controllate è in quegli anni la maggiore società di produzione di elettricità in Italia: si contende il primato con la SADE (Società Adriatica di Elettricità), la SME (Società Meridionale di Elettricità) e la SIP (Società Idroelettrica del Piemonte). Nella Edison Marcello farà tutta la sua carriera fino al 1963, progettando in circa 25 anni più di 30 dighe in Italia e una decina all’estero: un numero incredibile giustificato solo dal parallelo enorme sviluppo del settore, tra la fine della guerra e il miracolo economico, quando il Paese innesca il suo processo di industrializzazione ed è vorace di energia. Poi, dal 1° gennaio 1964, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica sancita per legge nel 1962 e l’istituzione dell’Enel, tutte le industrie elettriche private vengono assorbite dallo Stato. Le dighe e le centrali sono espropriate e con gli indennizzi le società investono in altro: l’Edison si fonde con la Montecatini creando la Montedison, attiva nella chimica; la SIP si dedica all’esercizio telefonico e la SME all’industria alimentare mentre la SADE è travolta dal disastro del Vajont. Marcello diventa consulente operativo dell’Enel, poi nel 1967 lascia per limiti d’età. Scompare due anni dopo, il 9 gennaio 1969, e con lui l’identità della progettazione italiana di dighe. I primi lavori che Marcello segue per la Edison prima della seconda guerra mondiale sono relativi alle dighe di Agaro e di Morasco, realizzate dalla ditta Umberto Girola: sono dighe del tipo “a gravità massiccia”, le più diffuse. In seguito Marcello progetta anche dighe ad arco, tra cui quella di Santa Giustina, sul fiume Noce, nella Val di Non, in Trentino, costruita tra il 1946 e il 1950, alta 152 metri: la più alta d’Europa al momento della realizzazione. E sperimenta anche la tipologia di dighe a doppia curvatura, tra cui quella spettacolare nella Valle di Lei, sopra Chiavenna, proprio al confine con la Svizzera, costruita tra il 1957 e il 1960. Il modello, preparato in scala 1:66 all’ISMES – l’Istituto di Bergamo specializzato nelle prove per la verifica del complicatissimo comportamento statico – si direbbe una scultura, dalla linea dinamica ed elegante. Nella realtà, è gigantesca: 690 metri di lunghezza, alta 143 metri, molto più del grattacielo Pirelli e 10 volte più lunga. Paradossalmente non sono però le dighe ad arco o quelle a doppia curvatura, pure così maestose, a far diventare Marcello famoso nel mondo, ma quelle di sua invenzione: la diga “tipo Marcello” e poi la diga in blocchi di calcestruzzo, brevettata nel 1954. Come è fatta una diga a gravità alleggerita? Quando Marcello comincia a lavorare per la Edison, nel 1937, in Italia vige l’autarchia, quel regime di autosufficienza dall’estero che è la risposta del Fascismo alle sanzioni della Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Bisogna dunque risparmiare, i materiali soprattutto. Marcello immagina una diga a gravità, di quelle classiche, e per ottimizzare l’impiego di cemento la svuota all’interno. Poi, invece di usare la consueta sagoma del triangolo rettangolo, la sua diga diventa un triangolo isoscele. In questo modo l’acqua, che spinge sul paramento di monte, lo sormonta e quindi lo stabilizza. Marcello ha giocato solo con la geometria: la sua diga isoscele e cava è però molto vantaggiosa, sia dal punto di vista statico che dal punto di vista economico. Il risparmio di calcestruzzo, rispetto a un’equivalente diga a gravità tradizionale, raggiunge percentuali fino al 30%, con un’economia di circa il 20% sui costi di costruzione. È un po’ più difficile da fare: meglio così, il cantiere darà lavoro a più operai. Ma non basta: Marcello rifila tutto accuratamente per ridurre gli sprechi. La sua diga è fatta accostando uno dopo l’altro tanti speroni uguali, spessi circa 20 metri ciascuno.
Ogni sperone è sagomato con il minimo di materiale: le pareti si riducono di spessore, si inclinano, si allargano solo dove serve. Il paramento di monte, poi sommerso dall’acqua, rimane semplice, liscio; quello di valle, invece, è la facciata della diga, la sua immagine, e Marcello la lavora, la scolpisce, la piega: l’esito è il muro fortificato di una città, con i suoi bastioni, i torrioni, i merli, le scarpe. Una fortezza d’acqua: è un’immagine muraria, possente, satura di storia. Ma in realtà è anche una forma avveniristica, dal sapore futurista: nella sequenza degli speroni altissimi si materializzano i disegni di Antonio Sant’Elia, gli studi del 1913 per le centrali e le condotte forzate, in cui si mescolano ingegneria, visionarietà, energia, lirismo. Il futurismo, in effetti, si è nutrito di ingegneria e l’ingegneria, con le opere di Marcello, ricambia. Nel dopoguerra, prima di affrontare i lavori più impegnativi, Marcello fa una “prima prova” della sua invenzione in Sardegna, dove la produzione di energia idroelettrica è ancora in gran parte affidata alla diga di Santa Chiara sul Tirso, progettata da Omodeo e da Luigi Kambo e completata nel 1925. Già prima della guerra si era deciso di costruire un impianto nella provincia di Nuoro, sbarrando il Flumendosa. Marcello recupera i vecchi progetti per gli impianti ma la diga la ridisegna completamente e diventa a gravità alleggerita: la diga di Bau Muggeris, costruita tra il 1948 e il 1949 dall’impresa Lodigiani. Poi ne progetta una anche per la Sicilia, per conto dell’Ente Siciliano di Elettricità (l’ESE), un’istituzione pubblica fondata nel 1947 che ha in concessione lo sfruttamento idroelettrico dei fiumi dell’isola. Uno dei progetti più ambiziosi dell’ESE prevede lo sfruttamento dei bacini del Salso e del Simeto, grazie a una serie di dighe: la prima a essere realizzata è proprio quella di Ancipa sul fiume Troina. L’opera è ben più monumentale di quella sarda: 108 metri di altezza. Il cantiere, complicato ma molto ben organizzato dalla Lodigiani, che si specializza nella soluzione a gravità alleggerita, comincia a settembre del 1949 e, nonostante la mole dei lavori, finisce a novembre del 1952. Nello stesso 1949, sulla punta più a nord dell’Italia, si avvia anche il cantiere della diga del Sabbione, questa volta affidato all’impresa Girola. La diga si trova a 2.500 metri sul livello del mare e sbarra la conca di un ghiacciaio che durante l’inverno è sempre stracolmo di neve. I lavori si possono portare avanti solo durante la bella stagione, tra inizio giugno e fine ottobre. Le baracche del cantiere sono così isolate che saranno donate, alla fine dei lavori, a un laboratorio per l’osservazione dei raggi cosmici grazie al quale il fisico Carlo Rubbia, poi premio Nobel, svolgerà una parte della sua tesi di laurea. La costruzione di questa “diga sul ghiacciaio” è raccontata dal giovanissimo Ermanno Olmi in un cortometraggio girato per la Edison, dove lavorava la mamma che lo aveva fatto assumere, ancora studente, come fattorino; poi gli avevano affidato le proiezioni cinematografiche per gli operai e, da lì, aveva trovato modo di girare filmati aziendali sui cantieri. Sulla diga del Sabbione esistono addirittura due documentari, da dieci minuti ciascuno, montati in tempi diversi: uno più amatoriale, l’altro con musiche originali scritte da Pier Emilio Bassi e commentato dalla voce impostata di un lettore professionista. Olmi si concentra sul lato umano del cantiere, popolato da operai provenienti da ogni regione d’Italia, che vivono per mesi in alta montagna, lontani dalla famiglia e, mentre mette a punto la sua originale poetica cinematografica, ci regala un documento preziosissimo sui modi della costruzione. Fino al 1962, Marcello realizza altre 7 dighe a gravità alleggerita: 3 sulle cime lombarde della Val Camonica, tra cui quella di Pantano d’Avio, costruita dalla Salci, uno dei serbatoi italiani più alti sul livello del mare, e la diga di Venerocolo, durante il cui cantiere, in una pausa invernale, Olmi gira il suo primo lungometraggio, “Il tempo si è fermato”, che ha come protagonista proprio il guardiano della diga; poi, per la Società Idroelettrica dell’Alto Chiese, la piccola diga di Malga Boazzo ela diga di Malga Bissina: quest’ultima, con 561 metri di lunghezza e 87 metri di altezza, è lo sbarramento a vallata larga tra i più suggestivi del mondo, complice naturalmente il paesaggio magnifico. Poi tre dighe “tipo Marcello” si fanno anche all’estero: una in Brasile, una in Grecia e una in Spagna, la diga di Alcantara, che forma il più grande lago artificiale d’Europa. Marcello, nel frattempo, ha imparato che esistono situazioni geologiche in cui la sua diga non è adatta: soprattutto quando ci sono terreni deboli, compressibili, che si possono deformare in modo differenziale. Per questo il 4 febbraio 1954 deposita un brevetto, per proteggere i diritti su una diga a blocchi di calcestruzzo. I blocchi cubici, di 4 metri di lato, si gettano uno sopra l’altro a formare una pila verticale e quindi, accostando più pile di altezza diversa, si genera uno sperone di forma triangolare. A distanza di 12 centimetri, si getta in blocchi un altro sperone. Nell’intercapedine si dispone uno strato di ghiaia, che funziona come lubrificante e consente agli speroni di adattarsi ai cedimenti del terreno senza rompersi. Le foto di cantiere di queste dighe, con i blocchi enormi uno sull’altro, sembrano foto di scena di un film sulle piramidi o di un documentario sulla costruzione delle mura ciclopiche di una qualche città antica. Una volta terminato il cuore della diga, Marcello nasconde accuratamente i blocchi dietro i due paramenti: quello di monte, contro l’acqua, è ricoperto da lamiere di ferro purissimo per garantire la tenuta ed evitare la corrosione; quello di valle, la “facciata” della diga, è disegnato con un bugnato modernissimo, inciso da profonde bisellature. A guardarlo da lontano appare come una scheda perforata, di quelle che cominciavano a girare per i primi calcolatori di quegli anni, che, in una sorta di linguaggio macchina, ci parla di pressione, capienza, energia. Insomma, passione per la storia, visionarietà e capacità di progettare oggetti di design alla scala del paesaggio: Claudio Marcello è un perfetto portavoce della Scuola italiana di Ingegneria. Tra il 1954 e il 1958, Marcello realizza 4 dighe a blocchi di calcestruzzo, 3 in Italia e 1 all’estero, in America latina. La prima è quella sul torrente Plàtani, che forma il lago Fanaco in Sicilia, completata nel 1955. Non lontana, la diga del Pozzillo sul Salso, utilizzata anche come serbatoio per l’irrigazione di tutta la piana di Catania. Anche qui un documentario Incom, diretto da Vittorio Gallo, ne segue passo passo la costruzione: un filmato dalla poetica neo-realista, attento ai volti e agli sguardi degli operai, che descrive senza filtri il duro cantiere e anche le pericolose acrobazie cui sono costretti gli uomini sui paramenti di monte e di valle. Nel frattempo si avvia anche la costruzione della diga di Pian Palù, in provincia di Trento, che sbarra l’alveo del torrente Noce, ultimata a novembre 1958. Poi la diga sul Rio Bianco in Perù. Ma presto tutto si ferma. Con la nazionalizzazione, la storia dell’energia idroelettrica in Italia cambia, gli investimenti s’interrompono: non è più il tempo, neanche per Marcello, di costruire una diga l’anno. Gli anni del boom delle dighe in Italia sono gli stessi in cui la Scuola italiana di Ingegneria diventa la più famosa del mondo: sono gli anni in cui operano Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi, Silvano Zorzi, in cui si costruisce l’Autostrada del Sole, in cui si svolgono le Olimpiadi di Roma. Sono gli anni dei grandi successi dell’ingegneria strutturale italiana, raccontati tra l’altro da una famosa mostra che si tiene a New York nell’estate del 1964 e che celebra l’ingegneria mondiale del XX secolo. In quella mostra, in cui sono esposte moltissime opere italiane, ci sono anche 25 grandi dighe di tutto il mondo, che rappresentano l’eccellenza, dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Svizzera alla Francia; ben 4 sono “Made in Italy” e sono firmate da Claudio Marcello: le dighe di Ancipa, di Malga Bissina, di Pozzillo e della Valle di Lei. Insomma, le dighe di Claudio Marcello contribuiscono in quegli anni a dare luce all’Italia e a farla splendere nel mondo.
Questo articolo è stato pubblicato in l’industria delle costruzioni 476 – rassegna italiana. Intervenire sull’esistente – novembre/dicembre 2020
Tullia Iori, Francesca Argenio

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Tullia Iori

Astrazione e costruzione. Pietro Lingeri in mostra alla Triennale di Milano

4 Aprile 2022
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Astrazione e costruzione. Pietro Lingeri in mostra alla Triennale di Milano


La mostra su Pietro Lingeri, curata da Gabriele Neri e da poco conclusa alla Triennale di Milano, dedicata soprattutto alla poco studiata attività del progettista nel dopoguerra, ha offerto un’opportunità unica di vedere dal vero le più interessanti “occasioni perdute” del modernismo italiano tra le due guerre: uno di fronte all’altro, il modello del Danteum ai Fori imperiali e quello del Palazzo dei Congressi all’E42 a Roma, architetture reali sebbene in miniatura. Se c’è un rimprovero possibile per la mostra “Pietro Lingeri. Astrazione e costruzione” alla Triennale di Milano è: troppo breve! Un mese e mezzo, appena 45 giorni – dall’8 ottobre al 21 novembre 2021 – non sono sufficienti per innescare il passaparola e dare modo di organizzare la visita, che avrebbe davvero meritato un viaggio di andata e ritorno in giornata anche per gli appassionati più lontani. E per chi non l’ha vista, il racconto non ha alcuna possibilità di rendere efficacemente l’emozione di vedere dal vivo il materiale esposto, che da alcuni punti dello spazio allestito offriva un’esperienza così avvolgente e fisica che siamo certi il metaverso non consentirà mai. Resta però, come consolazione, il catalogo curato, come la mostra, da Gabriele Neri e il lavoro a monte, cioè il progetto di digitalizzazione e valorizzazione di parte dei disegni e delle fotografie, condotto grazie alla dedizione della nipote Elena, custode amorevole dell’Archivio Pietro Lingeri, in collaborazione con Triennale. L’archivio raccoglie materiali di 356 progetti tra il 1920 e il 1968, con circa 4.500 disegni, 850 foto d’epoca, 900 lettere, oltre a modelli, plastici, bibliografia d’epoca e altro. Poco, per un progettista così attivo: gran parte del lavoro elaborato negli anni prima della guerra è andato perduto nell’agosto 1943 durante i ripetuti bombardamenti del centro di Milano da parte dell’aviazione alleata,che colpiscono anche lo studio di Lingeri. Un primo inventario dell’archivio è stato avviato nel 1990 da Luigi Spinelli e completato nel 2004, in occasione della monografia edita da Electa, a cura di Chiara Baglione e Elisabetta Susani. Il processo di digitalizzazione, parziale ma destinato a estendersi a tutte le unità archivistiche, consente oggi una maggiore protezione dei materiali, fragili e difficili da conservare, e renderà più facile il proseguimento della ricerca storica, architettonica e costruttiva, sul progettista. Milano è stata il palcoscenico privilegiato dell’attività di Lingeri, soprattutto nel dopoguerra: i quartieri INA Casa, i tanti condomini residenziali privati, le ville, gli stabilimenti della ricostruzione. La “stanza” più grande della mostra era dedicata a questa “seconda vita” del progettista, la meno studiata, la meno celebrata. Lo sguardo d’insieme sui disegni e sulle fotografie appoggiate lungo la consolle che legava tutte le stanze, consentiva però sempre di cogliere il filo di continuità con la “prima” vita: quella “comacina”, da solo e poi all’interno del “collettivo” comasco e in coppia con Giuseppe Terragni, più giovane di dieci anni ma polarizzante con la sua brevissima ma frenetica attività. Le deliziose “stampe a contatto” delle foto di cantiere, minuscole ma incorniciate come fossero ciascuna un documento prezioso, la “quadreria” dei progetti, alcuni sconosciuti, le belle foto attuali di Filippo Romano non hanno però potuto distrarmi da alcuni attrattori: i grandi modelli originali. In particolare, il modello del Danteum, il monumento a Dante e alla Commedia da costruire a Roma, sulla nuova via dell’Impero. Modello che da solo giustificava il viaggio. Nel catalogo della mostra, Elena spiega che il nonno aveva costruito delle valigie di legno per trasportare a Roma, il 10 novembre 1938, le 22 magnifiche tavole del progetto, acquarellate su carta Fabriano, in scala 1:100, e che le portava sempre con sé nei suoi spostamenti, tanto da salvarli dal bombardamento dello studio. Altrettanto fortunosamente anche il modello si è salvato. E bisogna ringraziare Neri per la determinazione con cui ha insistito, convincendo Elena a esporlo, come racconta lei stessa.
Anticipato nel corridoio d’ingresso alla mostra dalla sua cassa di legno da viaggio, il modello in scala 1:50 – 132,5 x 100 x 39 centimetri – era collocato a una quota perfetta per essere osservato anche dall’alto, visuale indispensabile per apprezzare le diverse originali soluzioni delle coperture. Pochi fortunati, finora, potevano dire di aver visto questo misterioso oggetto: è realizzato, forse nel 1940, in legno, gesso e vetro (o una prima plastica trasparente tipo plexiglas?), sulla base di disegni aggiornati rispetto a quelli presentati al Duce a Palazzo Venezia nel 1938 (forse – ma Gabriele ha promesso di lavorarci ancora – tre disegni in formato 1:50 che, secondo Elena, erano stati forniti al gessista Zenesini); poi per qualche tempo – certamente a primavera del 1941, quando Lingeri si lamenta per lettera con Terragni di non sapere dove tenere l’ingombrante manufatto – viene custodito presso un’aula dell’Accademia di Brera, di cui era direttore Dino Valdameri, cioè il promotore del progetto del monumento; dopo la guerra, è esposto nel 1957 – come documentato negli archivi storici della Triennale – alla Mostra internazionale di architettura moderna, anche se non rimane alcuna traccia fotografica di questo passaggio; poi è spostato nella villa di Lingeri a Bolvedro di Tremezzo e, solo molto più tardi, reso di dominio pubblico da Thomas Schumacher, con due foto pubblicate nel 1976 e attraverso il noto volume dedicato al Danteum del 1980; dopo il lungo “esilio” sul la-go – seguendo la narrazione di Neri nel catalogo – la “fuga”, nel 1996, quando il modello parte per un giro del mondo, esposto in vari tipi di mostre in musei stranieri, tutti lontanissimi. Dal 3 novembre 2000, però, è di nuovo rinchiuso nella sua cassa fino alla troppo breve apparizione in Triennale. Così, quando nel 2003 con Sergio Poretti lavorammo al contributo su “I progetti romani e l’autarchia” per la monografia Electa, non abbiamo potuto vederlo. Per raccontare il progetto, ci siamo “accontentati” delle riproduzioni dei disegni colorati – mentre nella mostra, tutti insieme in originale, allineati sulla consolle, toglievano il fiato – e di poche foto, di pessima qualità, del modello. Per immaginarlo matericamente, veniva in soccorso solo la relazione descrittiva e soprattutto quella finanziaria, con incluso “Preventivo e Computo metrico per la costruzione del Danteum sulla via dell’Impero in Roma”: documenti conservati all’interno di un album fotografico presso l’Archivio Capitolino, all’epoca parzialmente pubblicati da Schumacher, da Giorgio Ciucci e poi da Gabriele Milelli. Asciutto nello stile ma prodigo di informazioni su materiali e dimensioni, il computo ci aveva tolto molte curiosità su come i due – Lingeri e Terragni – pensavano di costruire quest’architettura visionaria. Nel documento, inevitabilmente di massima, è scritto che i muri pieni che delimitano i percorsi e le sale dovevano essere realizzati con “masselli di pietra travertino grana fine, collocato a giunto unito assicurato con zanche in bronzo piombato”. Alcuni muri, nei disegni, si mostrano “affettati” da tagli di 20 centimetri, che si ripetono a intervalli regolari: questi tagli sono descritti nel computo come chiusi con lastre di vetro. Le cento colonne del diametro di 1 metro, alte 8,20 metri, che rappresentano la Selva, dovevano essere blocchi monolitici di travertino. Ciascuna avrebbe sostenuto una piastra quadrata, ancora in massello di travertino, di lato pari a 2 metri e spessore di 50 centimetri, separata dalle adiacenti da una fessura di 20 centimetri, chiusa a sua volta con una lastra di vetro. In questo modo il soffitto, e corrispondentemente il pavimento della soprastante sala del Paradiso, sarebbero risultati tagliati in lungo e in largo da sottili lame di luce.
L’Inferno è caratterizzato da 7 coperture “a fungo” quadrate, di lato via via più piccolo, disposte in modo da descrivere una spirale, staccate e leggermente sfalsate in verticale: le colonne, di diametro degradante (da 170 a 60 centimetri), dovevano essere monoliti di travertino; le porzioni di copertura risolte con intelaiatura metallica completata da lastre di granito, ma nel computo non sono precisati i dettagli dell’assemblaggio. La sala del Purgatorio è priva di colonne e la grande piastra di copertura è bucata da lucernari quadrati, di lato via via decrescente, disposti secondo la stessa geometria a spirale che disegna l’Inferno (nel documento però non ci sono indicazioni nemmeno sul materiale usato per la piastra). Per chiudere le bucature, invece, si prevedevano serramenti metallici, scorrevoli orizzontalmente a scomparsa all’interno dello spessore della copertura. Infine, nel Paradiso, le 33 grandi colonne (del diametro di 80 centimetri, alte 7 metri), sono descritte nel computo come assemblate con “mattoni di vetro molato”, in quel momento in fase di studio specifico da parte della Saint-Gobain. La copertura, anch’essa trasparente, si sarebbe risolta “con architravi di vetro e acciaio e volte in mattoni di vetro con doppia camera d’aria”. In nessun punto dell’edificio è previsto l’impiego di malte, finiture o rivestimenti, questi ultimi considerati dai progettisti inganni incompatibili con la modernità. Il modello in scala non rispecchia perfettamente questo computo: molte parti sono semplificate, altre probabilmente già segnalano qualche ripensamento progettuale. Però nel gesso, lungo i muri, sono incise le apparecchiature dei masselli a giunto unito; le cesure che affettano i setti verticali sono ben marcate, anche se non rappresentate con vetro ma con sottili inserti di legno (forse per rendere più salde le varie parti che avrebbero altrimenti rischiato la sconnessione). I fitti pilastri della Selva sostengono ciascuno un “capitello”, separato da quello vicino, componendo la scacchiera del pavimento del Paradiso ma anche qui i collegamenti tra i blocchi quadrati sono opachi. I pilastri del Purgatorio non si vedono facilmente nel modello e la grande teca che lo proteggeva in mostra non consentiva di guardare attraverso i vuoti lasciati liberi nel gioco a spirale delle piastre quadrate di copertura, sempre più piccole: lame peraltro chiuse, questa volta, da strisce trasparenti. La copertura del Purgatorio è un semplice pannello ritagliato, naturalmente senza le chiusure dei lucernari, troppo difficili da rappresentare in scala. Le colonne circolari del Paradiso, infine, sono riprodotte con il legno ma dipinte di colore diverso dal resto: sembrano dorate. Per la copertura, nessuna voltina ma un unico foglio trasparente forato in corrispondenza di alcune colonne e disposto al di sotto della griglia scura che simula gli architravi. “Anche se soltanto in miniatura, il Danteum esiste”, scherza Neri nel catalogo. Il modello è, infatti, il progetto “costruito” e chiarisce, in modo assai più evidente dei disegni colorati e astratti, il rapporto ormai maturo dei due progettisti con l’idea di monumentalità. Il Danteum doveva essere un tempio arcaico, con gli elementi primari – il muro, la colonna, il capitello, l’architrave – fatti oggetto di un’operazione di “ricominciamento”: di ritorno all’archetipo ma “ca richi dell’esperienza assorbita e dimenticata… con la civiltà dietro le spalle anziché innanzi” (usando parole di Massimo Bontempelli).
In questo “ricominciamento”, il Danteum rifiuta i riferimenti storici classici dell’architettura ufficiale del regime e soprattutto rifiuta la romanità. È un edificio che non raggiunge la monumentalità per semplificazione o ingigantimento di linguaggi del passato, che non cerca di “far apparire il già esistente con le sembianze del nuovo”, ma si propone come un’immagine primordiale, un originale “più simile a quelli noti” dell’architettura pura, un paradigma visionario e per questo modernissimo e adatto – secondo i progettisti – a rappresentare il nuovo stile del Regime e dell’Impero. Posizione troppo trasgressiva in quel momento, quando la romanità è stata ormai scelta come strumento di propaganda per affermare il primato dell’Italia fascista nell’Olimpiade della Civiltà, slogan dell’Esposizione Universale del 1942. Operazione, quella del rifiuto della romanità, intrapresa già, dal “collettivo” comasco, nel grande “muro appeso” che nel 1934 caratterizza l’intero progetto di primo grado per il Palazzo del Littorio, proprio in via dell’Impero (in un lotto che s’interseca con la posizione in seguito prevista per il Danteum). Di quel bellissimo progetto non si è salvato nulla di originale nell’archivio di Lingeri e, infatti, in mostra c’erano ben pochi materiali: solo fotografie usate nelle pubblicazioni d’epoca. Di fronte alla Basilica di Massenzio il muro di prospetto, lungo 80 metri e alto 25 metri, leggermente concavo, è apparecchiato con grandi conci di porfido incastrati tra tiranti di ferro purissimo, appesi dall’alto in due punti e disposti secondo le isostatiche di trazione, studiate attraverso un modellino di fenolite sottoposto a indagine fotoelastica. Un muro futurista: nella relazione di concorso si sostiene che in questo modo si continua “l’antica tradizione statica dei romani” rendendo paradossalmente esplicito il distacco invece dai relativi riferimenti architettonici e costruttivi. Rifiuto proseguito proprio all’E42, nel Concorso per il Palazzo dei ricevimenti e dei congressi, dove al binomio Lingeri-Terragni si aggiunge anche Cesare Cattaneo. Con una storia altrettanto misteriosa ma non raccontata (perché si è salvato dal bombardamento? Dov’era? Era stato già esposto?), il modello del secondo grado di concorso era un altro catalizzatore della visita alla mostra. Illustrato con molte fotografie già nel dossier di presentazione del progetto conservato nel fondo dell’Ente Eur all’Archivio Centrale di Stato, la vista dal vivo dell’architettura “miniaturizzata” ha consentito di chiarire molti nodi e dettagli. Nelle pilastrate che caratterizzano tutti i fronti dell’edificio, e quindi del modello, si ripete ossessivamente l’originale elemento statico detto “pilastro binato”. Ogni pilastro, infatti, è concepito come composto in due parti: la più visibile, un monolite di granito rettangolare 40×80 centimetri; giustapposto, separato da 10 centimetri d’aria, un secondo pilastrino di cemento armato, 40×30 centimetri. Le due componenti si riconoscono benissimo nel modello, nonostante le ridotte dimensioni (in scala 1:50) e il colore omogeneo. I due materiali, come spiegato nella relazione di progetto, si dividono i compiti: il granito assorbe il peso, lavorando bene a compressione; il cemento armato, invece, funziona a flessione, intelaiando i solai. Di nuovo si punta all’archetipo, alla soluzione primordiale, ottenuta scomponendo le sollecitazioni pure ma risolvendo la stabilità con la tecnica moderna. Una soluzione anche autarchica – vista la ridotta sezione del pilastro che consente di limitare l’armatura – ma ben lontana dall’arco o dalla volta di romana tradizione. E infatti non vince il concorso: a gennaio del 1938, in un momento chiave per definire il linguaggio dell’E42, si preferisce, a fronteggiare il “Colosseo quadrato”, la rivisitazione del Pantheon di Adalberto Libera. Insomma, le due più clamorose “occasioni perdute” per Roma, secondo Pagano ma anche secondo i tanti che in questi anni hanno provato a immaginare almeno virtualmente il Danteum lungo via dei Fori imperiali, si sono confrontate per 45 giorni a Milano, come architetture reali seppure minuscole e certamente nell’interpretazione autentica degli autori. Peccato per i tanti che non hanno fatto in tempo a vederle!
Questo articolo è stato pubblicato in l’industria delle costruzioni 482 – densità e rigenerazione urbana – novembre/dicembre 2021
Tullia Iori

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